Il mio testamento

Perché vincere le elezioni non significa necessariamente avere ragione.
Perché lo Stato non è un'azienda che vive solo in funzione del Mercato:
i suoi compiti e le sue responsabilità hanno orizzonti più vasti.
Perché non si costruiscono sogni e politiche solo perché: "il 'popolo' è questo che vuole".
Perché dare al 'popolo' ciò che vuole, è un principio che dovrebbe valere sempre, anche quando chiede lavoro e futuro, non solo quando acclama a una nuova edizione del Grande Fratello.
Altrimenti non si spiega come mai nei Licei si continui a insegnare Greco e Latino: alle ragazze e ai ragazzi interessano molto di più fashion e figa.



Produzione: Torino, settembre 2009
Genere: Docu-fiction
Durata: 19m40s
SOggetto, sceneggiatura, regia e montaggio: Luigi Mezzacappa
Fotografia: Luigi e Luca Mezzacappa
Riprese: Luca Mezzacappa
Musiche: RadioHead (Nice Dream, High And Dry,Climbing Up The Wall)
Inserti: “Signorina Effe” di Wilma Labate (2007), YouTube (telegiornali e documentari vari)
Interpreti: Tex, Manuele, Angelo e Luigi 
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Oh, sia chiaro: non è che debba o voglia morire per forza.
E comunque non è fisicamente che voglio morire.
Ma diciamo che… se voglio continuare a vivere qui, qualcosa *dentro di me* deve morire.
E’ un fatto di evoluzione della specie: se mi adatto, posso restare in questo posto senza soffrire; se non ce la farò – ma solo quando sarò sicuro di non esserci riuscito – cercherò di capire se vorrò ancora vivere in questo Paese.
Intanto, per adesso, vediamo…

Non ho una gran cultura politica. Ricordo poco e male la Storia, che purtroppo ho studiato per le interrogazioni e non per me stesso: quando avevo 15 anni nessuno mi ha avvertito che mi sarebbe stata necessaria per vivere con consapevolezza il mio tempo. Ma non me la prendo con nessuno, perché da quando l’ho capito non ho fatto molto per recuperare.
Però ricordo le cose importanti del nostro passato.
Ho vissuto e vivo di qualche ideologia, lo ammetto. E penso che una buona ideologia, magari un po’ romantica e retorica, sia meglio di una cattiva idea. Anzi, penso che qualche volta sia addirittura meglio di una buona idea.
L’ideologia non è una malattia, e comunque non è contagiosa: si può essere portatori sani.

Ma più ancora che dall’ideologia, mi lascio trasportare da qualsiasi forma di romanticismo, anche il più elementare. Mi commuovo alla più banale dimostrazione di buoni sentimenti, perfino quando si pente il cattivo del film.
Credo alla buona fede di tutti, fino a (reiterata) prova contraria. Credo che siamo tutti uguali, e per questo dobbiamo avere gli stessi diritti. Credo che siamo tutti diversi, e per questo dobbiamo avere gli stessi diritti. Credo che se c’è qualcuno che non deve avere gli stessi diritti, è chi crede di non avere gli stessi doveri.
Credo di avere abbastanza sensibilità da saper leggere la passione negli occhi di alcuni e il disincanto o la sufficienza negli occhi di altri.
Il mio Credo è il Dubbio. Non faccio per vantarmi, ma credo di non avere certezze.
No, forse… forse un paio le ho.
Credo alla responsabilità come valore fondamentale del vivere civile. Credo che la responsabilità di una qualsiasi cosa che in questo momento sta accadendo dall’altra parte del mondo, sia da ricercare prima di tutto in noi stessi…
Oggi, come sempre, sono uscito di casa per andare a lavorare. E proprio oggi, 15 aprile 2008…

Sono abbastanza soddisfatto, posso dire di aver dato inizio al mio processo di identificazione in questa nostra nuova Italia. Non sarò certamente io ad accelerare il dilagare del malcostume, anzi: voglio affrettarmi a diventarne un bravo interprete. Non uno qualsiasi, altrimenti nessuno mi fila…
La verità… la verità è che stiamo ridiventando barbari.
Sarà per questo che le ultime elezioni sono andate come sono andate?
...
A noi italiani non piace che qualcuno ci faccia notare quante stronzate volano nell’aria ogni giorno; non piace ricordare che dietro ogni persona, ogni viso, c’è una storia, una dignità, una vita…
Il cinquantacinque per cento degli italiani è per la regola del “faccio quello che mi pare e non devo spiegazioni a nessuno”.

I tormentoni politici hanno distrutto e capovolto l’etica, che ha finito per assumere un significato paradossalmente opposto; chi oggi parla di etica passa ormai per un moralista cretino e triste come un gendarme a cui tocca far la guardia a un bordello.
Ma se tornassimo a parlare di etica, davvero, come per incanto i puttanieri tornerebbero a chiamarsi puttanieri. E i gendarmi tristi tornerebbero a sorridere.
Ma è possibile? È possibile che sia bastato un “eccesso di ideologia”, che sia bastato un corteo, “quel” corteo, l’eccesso di una stagione sindacale per cancellare il dolore, i soprusi e le offese alla dignità dei nostri padri e dei nostri nonni? E’ bastata una sola generazione vissuta senza conflitti per dimenticare le sofferenze di quelle precedenti? E cosa è successo? Invece di ringraziarli in silenzio e a capo chino, abbiamo deciso che LORO sono i colpevoli dei “pericoli” che la nostra democrazia sta correndo. Povere anime…
Revisionismo storico? Volentieri, anzi vado oltre: propongo il totale riazzeramento. Ricominciamo daccapo, rimettiamo ogni cosa al suo posto, ma ricomponiamo il puzzle senza forzare gli incastri. Se tra l’uovo e la gallina ho qualche imbarazzo nel decidere chi sia nato prima, nel caso di oppressore ed oppresso non ho nessuna esitazione.

Nessuno è capace neanche di immaginare un’altra prospettiva, il ruolo storico svolto da chi nelle crisi e nei conflitti ha raccolto il rancore e lo ha metabolizzato e ricomposto in un confronto sociale. Nessuno riesce a immaginare che senza la sinistra il rancore sarebbe potuto diventare devastante. Nessuno riesce a concepire il ruolo di responsabilità che ha svolto, ma anzi: le si attribuiscono colpe che non ha. Nessuno è capace di interrogarsi sulle cause che scatenano il rancore, ma anzi, il colpevole è il rancoroso…

E’ la “sindrome del vincente”: per non essere divorato dalla coscienza se ne ha una, è necessario attribuire colpe e difetti anche a chi è inconfutabilmente “sotto”, come quando guardiamo uno straccione e per non farci prendere dallo struggimento ci difendiamo con un: “Che schifo, guarda come è sporco, senti come puzza”…

Con l’etica azzerata passano tutte le mistificazioni, compresa quella per cui l’Italia è assoggettata da 60 anni da un’egemonia intellettuale che domina la politica attraverso giudici e giornalisti, che opprime e intimidisce i cittadini che lavorano per la famiglia e per la comunità. Il cortocircuito è fatto: l’etica è una menzogna che frena la libertà dell’individuo.

L’etica perde perché è pudìca; l’arroganza vince perché non ha vergogna e grida sempre più forte.

La politica non c’entra niente, qui non è in gioco la supremazia di uno schieramento su un altro, ma una posta molto, molto più alta. Nei nostri anni è bastato un niente, è bastato confondere i nostri sogni con quelli preconfezionati e pronti all’uso, e tutto si è capovolto.

Nulla cambierà fino a quando non riconosceremo la causa del malessere, di questa barbarie che ha preso il sopravvento sulla nostra intelligenza.

I nostri nemici non sono i sovversivi né gli sbirri, né gli intellettuali né i servi del Padrone. Non è lo Stato, né le multinazionali assetate di sangue. Oppure sì, certo, ma sono un fatto contingente, e parlandone così, le loro vittime mi perdonino.

I nostri nemici siamo noi, la nostra ignoranza, la nostra completa e totale deresponsabilizzazione.

Siamo noi, che tolleriamo qualsiasi genere di verità senza verificarla.

Siamo noi, che lasciamo che dello Stato, la nostra ricchezza più preziosa dopo la nostra vita e i nostri affetti, se ne impossessi un privato cittadino che la utilizza come fosse cosa sua.

Siamo noi, che lasciamo decidere il nostro destino a persone con serie turbe psicologiche, che vogliono bloccare le frontiere come fanno con i cancelli delle loro ville, che non concepiscono politiche sociali diverse dal relegare le minoranze nelle riserve come fanno con i loro maggiordomi, che trasmettono le loro paure ai cittadini così da sentirsi più protetti loro.

Siamo noi, che ci lasciamo inculcare il terrore della diversità come minaccia alla nostra identità. Siamo noi, che dimentichiamo che la diversità è ricchezza di culture e opportunità.

Siamo noi, che perdiamo di vista l’unico bene supremo in grado di accomunarci tutti: il lavoro, la pace e la tolleranza, diversa dall’accondiscendenza.

Abbiamo sdoganato l’arroganza e depenalizzato l’ignoranza, abbiamo concesso l’indulto al pressappochismo. E abbiamo messo sullo scranno più alto l’interprete migliore che c’era sulla scena.

Abbiamo finito per credere che la libertà sia dire ciò che si pensa senza più pensare a ciò che si dice.

Ci siamo costruiti un equivoco mortale per poi viverci dentro.

Ecco l’Italia che cos’è.