Non è un saggio e nemmeno una recensione: questa è una storia esemplare
di un film esemplare e di ciò che può accadere a un film quando "casca
male" nel tempo, nel modo e sì, anche nel luogo
Genere: Documentario
Produzione: Torino, dicembre 2011
Durata: 22m19s
Soggetto, montaggio e testi: Luigi Mezzacappa
Inserti: “L'oro di Cuba" di Giuliano Montaldo;
Inserti: “L'oro di Cuba" di Giuliano Montaldo;
"Soy Cuba" di Mikhail Kalatozov
"Il mammuth siberiano" di Vicente Ferraz
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Questo non è esattamente un
saggio, e nemmeno una recensione, almeno nell'accezione più comune del termine.
Questa è una storia esemplare di un film esemplare, e di ciò che può accadere a
un film quando "casca male",
nel tempo, nel modo e sì, anche nel luogo.
E' la storia di "Soy Cuba".
Il film
“Soy Cuba” è il film che Mikhail Kalatozov girò su Cuba, a Cuba, nel
1963. L’idea che il regista russo pose alla base del film è rivelata già nel
titolo: a raccontare la sua anima e la sua Storia sarà la stessa terra di Cuba, in prima
persona. E lo farà “liricamente”.
Il racconto è organizzato in un prologo e quattro storie. All’inizio di
ognuna, una voce femminile sottolinea la distanza tra la struggente bellezza
dell’isola e la disperazione dei suoi abitanti. Sulla scia del più classico
cinema cubano, il film spiega se stesso: la voce accompagna lo sguardo sulla miseria
e sulle dignità calpestate contrapponendole allo sfarzo e alla voluttà, la sola
immagine di Cuba fino ad allora raccontata al resto del mondo.
Dopo averci mostrato la primitiva bellezza dell’isola, la macchina da
presa ci accompagna nei luoghi delle dolorose contraddizioni e scorriamo, come
fossero in vetrina, le immagini della dissolutezza della borghesia.
Kalatozov utilizzò pellicole militari all’infrarosso per esaltare il
contrasto delle immagini al limite delle possibilità tecnologiche dell’epoca.
Abituato a disporre di grandi risorse, lavorò duro per 14 mesi, chiese e
ottenne uno straordinario dispiegamento di mezzi e girò tantissime volte le
stesse scene per raggiungere la perfezione, convinto com’era di costruire
un’opera epica.
“Soy Cuba” è ritenuto da molti un film strepitoso, capace di influenzare
la poetica dei registi che ne entrano in contatto; alcune scene sono
considerate tra le più belle della storia del cinema di tutti i tempi. Ciò che
colpisce sono l'altissima qualità tecnica della fotografia di Uruševskij, la
complessità dei movimenti di macchina e i lunghissimi piani sequenza che ci lasciano letteralmente senza fiato, vere e
proprie acrobazie rese possibili da autentiche opere di ingegneria.
Contestualizzazione storica
Il periodo storico della narrazione si colloca a cavallo dell'avvento della
Rivoluzione che all'alba del 1° gennaio del 1959 portò Fidel Castro al governo
di una Cuba liberata dalla presenza americana e dal suo “guardiano” Batista.
In seguito alle nazionalizzazioni attuate dal governo rivoluzionario che riacquistò
a prezzi politici le proprietà straniere dell'isola, gli Stati Uniti imposero un embargo commerciale -
in atto ancora oggi - con l'obiettivo di prostrare l'economia del nuovo corso e
il sostegno della popolazione. La difficoltà in cui versò il nascente Stato
cubano in seguito a queste misure indusse la Russia di Nikita Kruscev ad avvicinarsi
alle vicende dell’isola.
Seguì un periodo di grande tensione politica a livello mondiale, in piena
guerra fredda: gli Stati Uniti iniziarono una lunghissima serie di tentativi di
rovesciamento del governo cubano (la fallita invasione della Baia dei Porci è
certamente il più noto), e la Russia installò basi militari per riequilibrare
lo scacchiere nucleare pesantemente sbilanciato dallo strapotere degli Stati
Uniti che già schieravano missili in Europa. La "crisi dei missili" fu
risolta da Kruscev, che decise di ritirarli in cambio di una pubblica
dichiarazione di Kennedy di non invadere l'isola.
Sul versante interno, il governo rivoluzionario era ansioso di attuare e
mostrare al mondo un socialismo dal volto umano, attento anche alle espressioni
dell’arte. Fu istituito l'Icaic (Instituto Cubano del Arte e Industria
Cinematograficas) in cui iniziarono a lavorare molti registi e tecnici anche
vicini al neorealismo italiano per aver studiato al Centro Sperimentale di Cinematografia
di Roma, e il cinema cubano s’impose in
molte competizioni internazionali. Uno dei maggiori esponenti di quel periodo
fu Tomas Gutierrez Aléa, detto "Titòn" che - per inciso - realizzò
anche film molto critici nei confronti della nuova società cubana.
L’interesse dei sovietici nei confronti di Cuba si manifestò quindi anche
nella cultura, attratti dal fascino di quello “strano” popolo solare e di uno spirito
rivoluzionario che appariva molto lontano dal rigore della loro esperienza. In
un clima di fervore e curiosità, molti intellettuali e registi russi “sbarcarono”
a Cuba con il desiderio di “omaggiare” la Rivoluzione.
Il cinema russo e cubano del
periodo
Gli strumenti culturali che i russi utilizzarono furono fatalmente quelli
del loro repertorio cinematografico dell’epoca: l’idealizza-zione e la stilizzazione.
Il cinema sovietico degli anni ’60 fu sicuramente altra cosa rispetto al
“realismo socialista” di trent’anni prima, ma non è del tutto inutile ricordare
quali siano state le sue radici, anche a costo di eccessive semplificazioni.
Il realismo socialista fu introdotto dal Congresso degli scrittori
sovietici intorno alla metà degli anni '30 come “principio estetico” di unificazione
degli stili artistici, finalizzato a veicolare in modo coerente le dottrine
dello Stato. Le quali dottrine vennero fatte rispettare anche con la repressione
che non risparmiò gli artisti.
I temi ricorrenti erano la lotta di classe,
l'alleanza fra contadini e operai, la storia del movimento operaio e la vita
dei lavoratori, tutto ‘elargito’ senza risparmio di retorica. Un ossequio ossessivo
e monocorde al "principio", senza alcuna digressione per altre forme
e modalità espressive che, ancorché ‘guidate’, avrebbero potuto se non altro
preservare la vitalità e la creatività degli artisti.
La Russia dovette attendere la morte di Stalin e l’avvento di Kruscev per
respirare una nuova ventata di rinascimento culturale che allentasse le
strutture narrative del realismo socialista. "Quando volano le cicogne"
del 1957, proprio di Kalatozov, è esemplare del ritrovato umanitarismo: il
regista non fa ricorso alle retoriche e alle icone tipiche del realismo
socialista e forse proprio per questo il suo capolavoro fu insignito della
Palma d'oro al Festival di Cannes del 1958.
Ma al di là dei suoi formalismi, quello sovietico era comunque un cinema
di qualità, come dimostra il riconoscimento di miglior film di tutti i tempi
conferito nel 1958 dai critici di tutto il mondo a "La corazzata Potemkin",
massima espressione del realismo socialista di trent’anni prima.
Nel periodo, così denso di eventi e nuove tendenze, di tensioni fra
occidente e blocco sovietico, di tentativi dei Paesi dell'Europa orientale di
affrancarsi dal giogo di Mosca e dei Paesi del Terzo Mondo di affermare la
propria identità, di ingerenze internazionali, repressioni e conflitti
pilotati, il cinema assunse fatalmente un inedito connotato politico.
Guidati dalle nuove aspirazioni del Continente, i registi latinoamericani
cercarono un contatto più immediato con il pubblico. A Cuba, la sperimentazione
e l'intrattenimento si fusero in nuovi formalismi, ma nonostante l'amicizia con
Mosca, gli artisti non abbracciarono mai il realismo
socialista e rimasero aperti alle più diverse influenze anche quando
il rigore della retorica si ammorbidì.
Come accennato, i film dei registi cubani di quegli anni portavano spesso
l'impronta del neorealismo italiano, ma non si limitavano a “scimmiottarlo”: oltre
a esplorare il territorio della politica, intervennero anche sulle tecniche e
sul linguaggio per rendere il cinema accessibile a un pubblico più vasto.
L'ICAIC promosse una sperimentazione di grande effetto divulgativo che
demistificava il processo cinematografico attraverso la rivelazione dei "trucchi"
del linguaggio e dell'ipnosi filmica. I cineasti cubani sapevano ricorrere a stilemi
innovativi, ma avevano il merito di usarli sempre in modo semplice e chiaro, a
differenza di quanto avveniva con la maggior parte dei registi europei. Lo
stile documentaristico e il commento fuori campo aiutavano il pubblico a
comprendere e decodificare anche le tecniche visive più audaci, come "La
muerte de un burocrata", sempre di Gutierrez Alea del 1966, esemplifica
alla perfezione.
Verso la metà degli anni ‘70, il cinema cubano era rispettato in tutto il
mondo: mentre i film delle avanguardie sudamericane ebbero successo
principalmente presso un pubblico d'elite, quelli Cubani dimostrarono che il
cinema del Terzo Mondo sapeva coniugare le convenzioni del cinema moderno con forme
narrative più semplici per gli spettatori.
La trama
Siamo all'Avana, è il 1958 e manca un anno al trionfo della Rivoluzione. La giovane Maria, fidanzata
con un venditore ambulante, si offre a un gruppo di affaristi americani
avventori di un night. Verrà scoperta dal suo ragazzo, e l'Americano che trascorrerà
la notte in casa sua al mattino si sveglierà, sconvolto dalla povertà in cui si
scopre immerso, e fuggirà sgomento, braccato dalla voce narrante che già conosciamo.
Uno straordinario uso del grandangolo ci regala meravigliosi scorci di
natura e scava nelle rughe dei volti della miseria rivelandocene la dignità. Con una nuova
serie di sequenze liriche, Kalatozov ci svela l'intera esistenza di Pedro, il colono
di una piantagione di canna da zucchero. Scorrono davanti ai suoi e ai nostri
occhi il tempo della speranza, il matrimonio, la nascita dei figli; poi il
tempo del dolore per la morte della moglie; quindi il tempo del lavoro, quando
invocherà buoni raccolti per il futuro dei suoi figli; e infine, il tempo della
disperazione, quando scoprirà di essere stato abbandonato dal padrone che ha
venduto la terra a una compagnia americana, e incendierà la piantagione.
Lo studente Enrique si ribella, e attraverso scene di “ordinario sopruso”
dell’imperialismo americano assistiamo alla sua presa di coscienza che lo
porterà a progettare l’assassinio del capo della Polizia di Batista anche
contro il volere dei suoi compagni di lotta. Il progetto non verrà realizzato
per pietà umana, perché Enrique non saprà colpire il carnefice davanti agli
occhi dei suoi familiari.
Ma in seguito all'uccisione di un suo compagno durante una
manifestazione, Enrique deciderà di immolarsi procurandosi la morte proprio per
mano di colui che poche ore prima aveva risparmiato.
Eccolo il secondo dei due grandiosi piani sequenza: per partecipare al
funerale di Enrique, la macchina da presa sembra librarsi nel cielo dell’Avana
come una metafora angelica del sogno dell’utopia socialista oppure, al di là
della condivisione o meno della causa cubana, come inconfutabile atto d'amore
per il cinema.
Il giudizio
Va detto ad ogni buon conto che non è la trama delle storie che ci farà
ricordare questo film: la ragazza che si prostituisce, la presa di coscienza
dello studente Enrique, il contadino vittima della disperazione e quello, tralasciato
per ragioni di tempo, che si associa alla rivolta, sono stratagemmi narrativi
abbastanza scontati e fin'anche leziosi, una rappresentazione forse anche
troppo retorica della realtà cubana.
Ma tant’è: questo era il “repertorio” del cinema russo, e queste furono
le scelte di Kalatozov e Uruševskij, in parte certo anche
suggestionate dal poeta Evtušenko, co-autore della sceneggiatura.
Nonostante l’impegno, l’attenzione maniacale nella realizzazione e una lavorazione
lunga e faticosa, il film fu un vero e proprio fiasco. Un flop, come si direbbe
oggi.
“Soy Cuba” doveva suggellare l’amicizia tra Russia e Cuba, ma dopo una
sola settimana di proiezione in contemporanea nelle sale di Mosca e dell'Avana,
venne ritirato e nascosto nel dimenticatoio.
Ai Cubani non piacque il tono melodrammatico della voce fuori campo che fu
scambiato per commiserazione. Il film fu considerato inadatto a raccontare la
nascita della Rivoluzione e i Cubani arrivarono addirittura a ribattezzarlo “No
Soy Cuba”. I tempi dilatati rispecchiavano un cinema che i Cubani non sentivano
come proprio: troppo “calcolato” per il loro temperamento. Non si
identificarono in quella visione romantica della Rivoluzione che per loro ebbe
ragioni più forti di un semplice fatto idealistico. La ricerca quasi maniacale per
il dettaglio e l'eccessiva cura per la fotografia devono aver finito per
schiacciare i contenuti e dare un’immagine della rivoluzione troppo “leccata”
per la sensibilità dei Cubani.
Ma il film non piacque neanche a Mosca perché i Russi non potevano
sopportare di vedere la dissolutezza degli Americani neanche un minuto e
neanche in un film. Inoltre, non riuscirono proprio a comprendere quello
“strano socialismo”, così poco “ortodosso”.
Un film sul film
Qualche decennio più tardi, nel 1995, il film fu riscoperto da Martin
Scorsese e Francis Ford Coppola, che dopo averlo fatto restaurare lo
riproposero al pubblico. Grazie a loro, fu rivalutato nei primi anni ’90 e
innalzato al rango di opera suprema: Scorsese lo esaltò affermando che se lo
avesse visto agli inizi della sua carriera sarebbe stato un regista diverso.
Non basterebbe un trattato, figuriamoci un breve documentario, per capire
se la ragione dello strano destino di questo film sia più di natura artistica o
politica. Chissà se il suo iniziale flop e la sua successiva esaltazione sono
dipesi più dalla inattualità dei canoni artistici o dal fatto che poi, con la
caduta del muro e l'archiviazione della guerra fredda, sia venuta meno la
diffidenza occidentale verso un modo diverso di pensare la società, e oggi siamo
al punto che quelle vicende possono tranquillamente tornare a essere raccontate,
magari proprio per confortare la convinzione che esista un solo stile di vita
accettabile, e quello è, ovviamente, il nostro.
Ma ciò che più di qualsiasi altra cosa risulta inspiegabile, è che quando
il film trovò finalmente la sua gloria, nessuno dei membri della troupe e degli
attori che vi parteciparono riuscì a credere di essere stato parte di un
capolavoro.
Il regista brasiliano Vicente Ferraz, nel suo documentario "Il
mammuth siberiano" del 2005, racconta molto bene il suo stupore e quello
dei protagonisti, alcuni dei quali addirittura sospettosi di essere presi in
giro.
Strana, stranissima storia: un film omaggiato da un popolo amico racconta
e incensa il trionfo e la vittoria sullo straniero, ma il film non piace al
popolo omaggiato.
Eppure il film non doveva essere così male se 30 anni dopo, riscoperto
quasi per caso, è stato poi incensato anch'esso.
Non c'è niente da fare, delle due una: o si è trattato di irriconoscenza,
oppure la distanza tra i due popoli - in termini artistici e forse anche
politici - era molto più grande rispetto a quanto essi stessi credevano.
E se davvero così fosse, potremo mai rimproverarci abbastanza - noi del "primo
mondo" - per aver costretto in "atmosfera controllata" la
conduzione di
un esperimento che avrebbe potuto esserci molto utile, per non avergli
permesso di svolgersi in modo naturale?
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